LA SENTENZA

SENYTENZAVALERIO  VARESI, La sentenza, Sperling & Kupfer (Sperling Paperback), 2011.

La vicenda

Maggio 1944, l’Italia occupata dai tedeschi  è ferita a lacerata dai bombardamenti alleati. Nell’apocalisse di una notte di fuoco a Parma i detenuti – comuni e politici- riescono a fuggire dal carcere di San Francesco. Alcuni sanno dove rifugiarsi o dove tornare, altri si disperdono e prendono a vagare tra la città e la campagna, con un unico obiettivo: salvarsi la pelle. Tra i primi c’è Ilio, un giovane intellettuale comunista di origine siciliana, colto e politicamente impegnato, idealista, convinto che sia suo dovere lottare per costruire un Paese più equo e più libero. Già condannato a morte dal tribunale fascista, una volta recuperata la libertà, riesce fortunosamente a ricongiungersi con i compagni e a rientrare nella rete operativa della Resistenza, dove assumerà il ruolo di commissario politico.
Tra gli sbandati c’è invece Bengasi, reduce dalla Legion Straniera, dove si è arruolato per sfuggire alla giustizia, con cui ha diversi conti in sospeso. Cinico, sprezzante del pericolo, talvolta violento ed aggressivo, egli ha alle spalle esperienze e scene di vita vissuta di estrema brutalità che avrebbero potuto annientarlo, ma ne hanno invece indurito la scorza emotiva e prosciugato i sentimenti.

Con altri due ex detenuti, Ferro e il napoletano Guagliò decide di raggiungere la montagna e unirsi a qualche banda partigiana. Non per convinzione politica né  per patriottismo, tantomeno per volontà di impegno personale: di tutte queste cose, Bengasi non sa e non vuole sapere niente. Gli basta campare, ed eventualmente, sì, combattere e menare le mani, per affermare se stesso e il proprio irrequieto slancio vitale.
Intanto, a Milano, un giovane detenuto comune, rapinatore ed omicida, viene cooptato dal comando fascista per infiltrarsi in una brigata combattente e svolgere un’azione di spionaggio, passando informazioni alla Milizia sui movimenti e i piani dei partigiani. La posta in gioco è la vita e, forse, la libertà. Impossibile rifiutare: questa non è una vera proposta, è un’imposizione senza via di scampo. L’infiltrato si chiamerà dunque Jim (come il personaggio di Conrad che lui non ha mai letto) e raggiungerà l’Appennino emiliano dove si combatte la guerriglia antifascista. Lo accompagnerà la prostituta Milly, che dovrà fingere di essere sua moglie.
I fuggitivi e i traditori abbandonano le città offese dalle bombe, attraversano scenari urbani devastati e spettrali, incontrano paesi villaggi, e poveri casolari isolati. Seppure in distaccamenti diversi, finiranno per trovarsi tutti nella Quarantasettesima Brigata Garibaldi, accampata sui monti. Il paesaggio, aspro difficile, talvolta impraticabile, colto sempre in condizioni atmosferiche ostili, dalla calura insopportabile all’inverno più gelido, sin dall’inizio diventa protagonista, mantenendo questa caratteristica alla conclusione del libro, con effetti particolarmente efficaci in alcune sequenze o episodi  di maggiore intensità drammatica: la fuga, i combattimenti, le esecuzioni finali dei due personaggi principali.

bandieracafConvivendo coi partigiani, Jim  e Bengasi possono conoscerne  la forza e le debolezze, le contraddizioni e le meschinità, insieme al coraggio e all’idealismo. Come loro trascorrono ore e giorni nell’attesa di rifornimenti, soffrono la scarsità di cibo e di soprattutto di armi, lesinate dagli inglesi, che, per un loro progetto politico preferiscono armare i reparti badogliani escludendo quelli garibaldini. Come loro intrattengono rapporti controversi con i civili, a volte solidali, a volte ostili, più spesso rassegnati a pagare comunque uno scotto alla guerra, senza differenze ideologiche tra chi si rende responsabile di sopraffazioni. Perché anche i partigiani, come i fascisti ed i tedeschi compiono razzie e rapine, benché poi si propongano di ristabilire risarcimenti ed eque distribuzioni se riescono ad assaltare i depositi del consorzio agrario o delle caserme.
Ma ciò che veramente  può minare l’efficienza dei diversi distaccamenti, mettendo repentaglio la vita di tutti,  sono la disorganizzazione e la mancanza di comunicazione tra i diversi responsabili, spesso rivali tra loro. Atteggiamenti di protagonismo, iniziative personali e persino episodi di insubordinazione si verificano con una certa frequenza, specialmente nei momenti in cui paura e tensione prendono il sopravvento, senza che Ilio, il commissario politico, riesca a contenerli richiamando la disciplina di partito. Il maggiore Holland, l’inglese incaricato dagli Alleati di coordinare le azioni partigiane e di organizzare i rifornimenti, critica e rimprovera, senza neppure tentare di mascherare un filo di disprezzo. In fondo per lui tutto ciò non ha molta importanza: non ci  ha mai veramente creduto, nell’azione di quel manipolo di sbandati. I partigiani, come tutti gli italiani,  in realtà non contano niente, sono fuori dai giochi internazionali e dall’esercizio del potere; sono solo pedine, o forse peggio: note di colore, folklore mediterraneo. Forse unico consapevole, Ilio vive amari momenti di impotenza e frustrazione, non confortato dall’ignara confusione degli altri.

Coraggio e inquietudine

In margine a tutto ciò, Jim e Bengasi. Sempre vigili e coscienti del proprio vizio di fondo, dovuto alla mancanza di onestà intellettuale, ora concretizzato in un vero e proprio tradimento, i due, partigiani anomali, senza ideali ma accomunati da un passato  di trasgressione, si fiutano a vicenda, si riconoscono nella falsità, pur senza sapere nulla l’uno dell’altro. Non si fidano, ma continuano a coprirsi, perché capiscono che la propria salvezza dipende da quella dell’oppositore. Il silenzio li può salvare reciprocamente, la verità  li può condannare entrambi.
partizanA poco a poco, tuttavia, condividendo i pericoli ed i disagi, imparando a controllare, se non proprio a reprimere, le pulsioni più istintive, Jim e Bengasi cominciano il proprio percorso di crescita e autocoscienza. Cominciano ad affezionarsi ai compagni, a distinguerne e a valutarne le diverse personalità, vedono l’idealismo di alcuni e i personalismi altri, capiscono la giustezza della causa e, almeno in parte, la necessità dell’impegno e del sacrificio personale. A loro volta, si fanno accettare ed apprezzare fino a ricevere degli incarichi di una certa responsabilità. E intanto, un filo di dubbio e inquietudine si insinua nel loro animo. Per l’uno complice è l’amore di Evelina, la staffetta della brigata, sentimento tutto nuovo, ma provato con tanto struggente abbandono. Per l’altro,  il nascente e ancora inconsapevole disagio per la parte che la vita gli ha riservato.
Ma il loro peccato originale si fa pagare: Bengasi, irruento e spavaldo, non rispetta gli ordini e sbaglia completamente un’azione militare, provocando un disastro che costerà la vita di alcuni partigiani. E Jim, non può più sottrarsi al proprio ruolo di spia. Le sue informazioni consentiranno ai fascisti di organizzare nuovi agguati e di fare ancora altre vittime.

Sono questi i momenti più drammatici del racconto, e le ragioni che porteranno alla duplice sentenza di morte. 270px-Brigate_GaribaldiDapprima è Bengasi ad essere  sottoposto al giudizio del tribunale partigiano. Il verdetto, duro ma necessario, provoca malessere e dolore negli stesi accusatori, sollevando addirittura una sedizione tra quelli che ormai lo ammiravano incondizionatamente. Nessuno vorrà essere esecutore della condanna: alla fine se ne incaricherà proprio Jim, per una specie di dovuto riconoscimento ad un compagno-antagonista che come lui ha giocato e ora ha perso. La camminata nel bosco dove Bengasi chiede di essere ucciso all’improvviso, di spalle, mentre sta ancora parlando, è una sequenza di alta intensità emotiva. Bengasi ha vissuto una vita sciagurata, ma sa morire con coraggio e fierezza,da vero uomo e quasi da eroe.  A Jim, vigliacco e venduto, è così riservata una lezione di dignità che ne minerà ogni parvenza di sicurezza. Sarà la crisi, ma anche l’inizio della risalita.
Ormai disprezzato ed isolato dai compagni, che hanno anche cominciato a sospettare di lui, sia per il suo comportamento ambiguo, sia a causa di Milly (la presunta moglie che si fa vedere in paese accompagnata dai fascisti), egli allora abbandona la brigata senza dare spiegazioni. Potrebbe salvarsi, potrebbe fuggire con Milly, che forse, se lui ci stesse, sarebbe anche disposta a cambiare vita e ha già predisposto la fuga per entrambi. Ma Jim è avviato ormai sulla strada del riscatto e dell’autocoscienza: alla vergogna e disgusto di sé si uniscono il riconoscimento dell’eroismo dei compagni e la nostalgia per la sincerità del loro impegno, forse ingenuo ma autentico. Dopo lunghe ore di riflessione e tormento, dopo aver finalmente letto quel fantomatico libro di Conrad che Ilio gli aveva regalato tanto tempo prima, decide di tornare alla brigata ed autoconsegnarsi. La sentenza ci sarà anche per lui. E sarà proprio lui stesso, tra la commozione e lo sconcerto dei compagni, a dare al plotone l’ordine di sparare.

Una visione realistica

L’immagine della Resistenza che emerge dalla lettura de La sentenza è forte, dura, realistica. Certamente lontanissima dalla presentazione agiografica che ne ha dato una certa cultura di sinistra, almeno negli anni immediatamente successivi alla guerra e alla Liberazione. Ma lontana anche da una volontà denigratoria che sembra essersi affermata in questi ultimi tempi, con tutta una produzione da cui si potrebbe essere indotti a credere che il movimento partigiano sia stato del tutto privo di idealismo e generosità, un’esplosione di violenza bruta perpetrata da bande di balordi assetati di sangue e di vendetta, ai margini di ogni morale e assolutamente al di fuori di qualsiasi consapevolezza politica. Il nome che si impone in questo senso è quello di Giampaolo Pansa, che con i suoi Il sangue dei vinti (2003) e I tre inverni della paura (2008) sembra essersi fatto portavoce di questa concezione ed è oggi considerato, a torto o a ragione, il protagonista di un revisionismo storico in cui alcuni vedono uno sciagurato atteggiamento distruttivo, storicamente acritico e ideologicamente sterile. Sull’altro versante, tuttavia, molti apprezzano questa sorta di controstoria, proprio perché sentita come demistificante e finalmente attestata su una nuova prospettiva, più  lucida e veritiera.

In realtà, a me sembra che già da tempo sia nel campo della divulgazione storiografica come in quello della narrativa e del cinema, numerosi lavori abbiano contribuito a presentar al pubblico anche non specialistico un’immagine realistica e non zuccherosa dell’azione partigiana. Senza peraltro giungere alla demolizione.
Per restare nel campo letterario, che è quello più pertinente parlando di Varesi, mi sembra che autori come Fenoglio, Calvino, Meneghello – per citarne solo alcuni fra i più noti – che peraltro la Resistenza l’hanno fatta davvero e ne hanno sperimentato in prima persona miseria e nobiltà, ne abbiano evidenziato già in anni ormai molto lontani aspetti contradditori e tutt’altro che esaltanti, pur mantenendo vivo il ricordo di un momento importante della Storia italiana in cui tanti ragazzi, uomini e donne, di ogni estrazione sociale e livello culturale, hanno sentito l’urgenza dell’impegno personale e della lotta per la causa della libertà. Ecco, a me piace pensare che Varesi, pur nell’originalità della sua scrittura e dell’orientamento ideologico, abbia tenuto presente la lezioni di questi maestri e ad essi si sia idealmente ispirato, anche riguardo l’interpretazione da proporre, per cui nonostante tutto, fascisti nazisti e partigiani non vanno comunque mai appiattiti sullo stesso piano, nella volontaristica negazione di ogni valore e di ogni eroismo.

Ubaldo Bertoli

Del resto La sentenza nasce come rivisitazione di un romanzo preesistente intitolato La quarantasettesima  (con cui si intende la mitica 47^ Garibaldi, la Brigata “dalla testa calda”, come la definì il maggiore inglese Charles Holland, non a caso personaggio presente anche nel libro di Varesi). Ne è autore  Ubaldo Bertoli (1909-2000), giornalista della Gazzetta di Parma e del Giorno, che  dal 1944 al 1945 era stato comandante partigiano con il nome di “Gino”, e poi redattore ed illustratore di Vento del Nord, organo dell’ANPI di Parma.BERTOLI
Di Bertoli  Varesi serba un ricordo nostalgico e ammirato: “Quando lavoravo a Parma – confessa in un’intervista – andavo a prendere Ubaldo a casa sua, in via Abba, e passavo le serate ad ascoltare i suoi racconti”. Sono le stesse storie di rabbia e coraggio che, raccontate con intensa incisività, caratterizzano le illustrazioni le e rappresentazioni grafiche dei partigiani pubblicate nel 2000 da Guanda col titolo di  La nave dei sogni perduti  (a cura di Guido Conti).
Continua infatti Varesi:  “Ubaldo pensava con affetto soprattutto alle donne che gli davano da mangiare quando si nascondeva nella valle”, ricorda il giornalista. “Una volta mi ha portato in Val Toccana per mostrarmi la casa di una signora che gli cucinava ‘la minestra più buona del mondo’. Altre volte amava tornare a Sant’Andrea Bagni, dove pare si fosse rifugiato il generale nazista Kesserling, e andavamo a mangiare nella pizzeria di un amico. A un certo punto tirava fuori dalla sahariana i suoi pennarelli e iniziava a disegnare sui piatti, sui tovaglioli. Era un genio sregolato”.

Dalla Quarantesettesima alla Sentenza

Pubblicato la prima volta nel 1961, cioè quindici anni dopo la fine del conflitto, La quarantasettesima (libro difficilissimo da trovare qui in area veneziana, nonostante le diverse edizioni tutte presso case editrici di rilevanza nazionale)  è considerato uno dei più bei romanzi sulla e della Resistenza ed stato esaltato da Franco Fortini per la sua “semplicità veramente epica”, dove si uniscono coralità e individualismo introspettivo, in un susseguirsi di episodi toccanti e drammatici.
In realtà, più che un romanzo, è un libro di memorie narrativamente rielaborate, cui Bertoli racconta fatti realmente accaduti, con personaggi storicamente veri.
NEVELo scenario è tra l’Appennino parmense e la valle dell’Enza, dietro la “Linea Gotica”, dove i partigiani  vivono nascosti tra i boschi e i casolari isolati, sempre nell’attesa del rifornimenti da cielo e nel terrore delle incursioni tedesche. Siamo infatti tra il  ’44 e l’inverno del ’45, nel periodo più crudo della guerra e dell’occupazione nazista.
Le azioni di guerriglia si susseguono a ritmo serrato, mentre infuriano le imboscate ed i rastrellamenti dei fascisti che torturano, incendiano case, impiccano partigiani e civili. E intanto colonne motorizzate di SS avanzano bloccando le vie d’accesso alle vallate del Reggiano e dell’Ovest Cisa con attacchi improvvisi che lasciano sul campo, alla fine di gennaio 1945, quasi centocinquanta tra morti e feriti della Quarantesettesima Garibaldi. Altre perdite si verificano nel mese di marzo, quando avvengono ancora nove combattimenti. Il 23 aprile la brigata si attesta a Traversetolo e il 24 si mette in marcia verso la città di Parma, che raggiunge mentre cominciano ad arrivare i primi contingenti di soldati brasiliani.
All’interno della storia generale, c’è poi la vicenda particolare di Juan e Tom, due delinquenti comuni  (che realmente combatterono sull’Appennino parmense, a fianco di Ubaldo “Gino” Bertoli) l’uno capitato nella Resistenza per caso, l’altro infiltrato col ruolo di spia per salvarsi la vita dai fascisti.
Omettendo valutazioni e commenti personali, Bertoli lascia agire e parlare direttamente i suoi partigiani (e con loro i fascisti, gli inglesi, i tedeschi, i civili e i militari). Li fa muovere, combattere, soffrire e morire: e così sono essi stessi, per lo più giovanissimi, che ci permettono di capire quale sia la giusta causa, ci mostrano da che parte stia la ragione. E spesso lo fanno sacrificando la loro stessa vita, realizzando la scelta estrema di una fine eroica, che per alcuni assume il ruolo del riscatto e della rialbilirazione.

2LIBROIspirandosi al libro di Bertoli, La sentenza mantiene la collocazione spazio-temporale e praticamente tutti gli elementi storici. Ma il suo libro, come peraltro quello di Bertoli,  non è soltanto il racconto di azioni militari, è molto altro ancora. Ci sono sentimenti, stati d’animo, emozioni e passioni. E poi atmosfere, suggestioni, memorie, dilatate dallo scorrere del tempo e dal susseguirsi delle stagioni in una lenta agonia di attese e silenzi. Oppure nel ritmo sincopato dell’attacco e della battaglia, sullo sfondo di una natura mutevole ma sempre ostile e insidiosa.
Il nucleo narrativo principale deriva – come ormai dovrebbe essere evidente – dalla rielaborazione       delle le storie incrociate di Juan e Tom, che diventano Bengasi e Jim, mentre Maddalena sarà Evelina, la staffetta innamorata, che dopo l’esecuzione del suo uomo, giustiziato per la sentenza emanata dagli stessi compagni, va a recuperarne il corpo nella neve e nel dirupo dove è stato nascosto: sola, fiera, bellissima. Nulla valgono per Evelina la logica cieca della guerra e la disciplina di partito, quando ignorano la sincerità dei  sentimenti più profondi e calpestano il diritto di un uomo alla propria dignità. Col suo dolore e il suo disgusto, pronta a lasciare la lotta partigiana, sarà lei a pronunciare l’ultima sentenza, forse la più dura e la più vera, perché sorta non solo dall’amore, ma anche e soprattutto dalla ribellione della coscienza.

Varesi scrittore eclettico

A questo punto rimane da chiarire soltanto un dubbio. Varesi ha deciso di abbandonare il giallo e per dedicarsi al romanzo storico? No, con tutta probabilità, dopo Il Rivoluzionario, ponderosa ricostruzione romanzata del secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta, che almeno dal punto di vista cronologico può considerarsi il seguito de La Sentenza, l’inquieto commissario Soneri è già in attesa dei propri lettori con una nuova avventura prossimamente in libreria.
E del resto Valerio Varesi è scrittore eclettico, interessato a raccontare sia la Storia che le diverse possibili storie, ovvero la vicenda collettiva e comune, che coinvolge tutti, indipendentemente dalle caratteristiche e dalle scelte personali, come le vicende individuali, particolari e uniche che distinguono e puntualizzano la vita di ciascuno di noi. Non c’è dunque un genere esclusivo e preferito nella produzione di Varesi: alla fortunata serie dei polizieschi si accompagna l’attenta rappresentazione della società contemporanea e i suoi mali, come avviene per esempio con il durissimo Il paese di Saimir, oppure la nota più psicologica ed intimista de Le imperfezioni, fino appunto ai romanzi di carattere storico. Né si tratta di fasi in sé concluse e successive: il passaggio da un genere all’altro avviene e si ripete con un’alternanza che segue evidentemente l’impulso dell’ispirazione e l’interesse di volta in volta predominante, senza escludere incursioni e, per così dire,  contaminazioni fra le varie tipologie narrative. Sto pensando, per esempio a Il fiume delle nebbie: giallo, sì, ma tutto costruito su una tematica storica che impregna di sé l’ambientazione, la caratterizzazione dei personaggi, la stessa trama poliziesca.
E infine va ricordato anche che l’autore affianca all’attività di scrittura narrativa quella di giornalista, che gli fornisce senz’altro un repertorio di informazioni, contatti, elementi di ricerca e riflessione, ma anche, comprensibilmente, costituisce il retroterra ed il presupposto capace di spiegare la sua attenzione così precisa e critica nei confronti del reale contemporaneo. Che non può comunque prescindere dal passato prossimo.

 

 

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