GIOVEDÌ 9 MAGGIO: INCONTRO CON VALERIO VARESI

valeriovaresiMagia dell’incontro

Mi è capitato spesso di notare come il contatto diretto con un autore, specie se scrittore di romanzi, sia in genere estremamente gratificante, permettendo di osservare come di persona questi risulti ancora più accattivante e gradevole (per la simpatia, la cordialità, la carica umana) di quanto si potesse dedurre dall’opera, anche nei casi in cui la lettura fosse risultata già del tutto soddisfacente. E talvolta succede persino che un testo non particolarmente gradito o apprezzato venga poi riabilitato dalla presenza di chi l’ha scritto, tanto che il giudizio, a quel punto, diventa incerto, o quanto meno passibile di un aggiustamento in senso positivo.
Ciò significa evidentemente che de visu la ricchezza interiore e la cultura che animano un autore sono in grado di manifestarsi in modo più esplicito e completo, coinvolgendo e convincendo completamente  il lettore, a cui ora è consentito conoscere qualche particolare in più riguardo la sua personalità e soprattutto riguardo le procedure, le scelte, persino le eventuali difficoltà del lavoro autoriale, insomma il percorso non sempre agevole del fare scrittura. Informazioni, rivelazioni, dati prima ignorati, forse intuiti, o del tutto imprevisti, che fanno sentire chi scrive più vicino e più vero. E danno alla sua opera una coloritura meno aliena, più nostra e riconoscibile, e quindi più sentita. Oltre che in varie altre occasioni precedenti, la “magia dell’incontro” è scattata con tutti gli scrittori conosciuti insieme ai “colleghi” dei gruppi di lettura, da Alicia Gìmenez Bartlett, a Marco Toso Borella, a Fulvio Ervas.
E si è puntualmente ripetuto giovedì 9 maggio 2013, nel corso dell’incontro con Valerio Varesi, organizzato con la collaborazione degli Amici della Biblioteca e introdotto da Carlo Marchiori, formalmente nell’ambito delle attività del gruppo serale L’Italia in giallo, ma con la partecipazione aperta a tutti.

Diversi registri di scrittura

Varesi è un signore dall’aspetto serio e tranquillo, gentile di una gentilezza pacata e mai invadente. A chi non lo conosce potrebbe sembrare riservato e forse timido, ma quando ha cominciato a parlare di sé e della propria opera, ha rivelato tutta la forza della sua lucida intelligenza e il calore del suo impegno umano e civile, catturando gli ascoltatori, che sono intervenuti numerosi ed hanno seguito con attenzione ed interesse il flusso di pensieri, rivelazioni, commenti scaturito dalla sua esposizione. Del suo essere artista e scrittore  Varesi ha parlato senza autocompiacimento, ma anche senza alcuna falsa modestia: semplicemente, dimostrando, con onestà, la piena coscienza del valore del proprio lavoro. Dal suo ruolo di cittadino e di testimone di una realtà oggi spesso molto pesante – dove ancora non si è riusciti a chiudere i conti col passato né a mantenere una memoria storica criticamente motivata – egli ha lasciato invece trasparire una grande amarezza per la situazione dell’Italia che, comunque la si voglia interpretare, può essere solo definita decadenza.
Non si è risparmiato, né sottratto a nessuna domanda od osservazione da parte degli spettatori: ed infatti si è parlato di tutto, spaziando dal giallo, ai  romanzi storici, passando quindi alla più recente storia italiana, fino agli ultimi orientamenti della politica e della società del Paese. Com’era logico che avvenisse, considerando  che Varesi è scrittore eclettico, che ama percorrere strade parallele e affrontare  generi e registri narrativi diversi, raccontando la Storia generale accanto alle molteplici e  possibili storie individuali, ovvero la vicenda collettiva e comune, del tutto indipendente dalle scelte personali, come le vicende particolari e uniche che distinguono e puntualizzano la vita di ciascuno di noi sia sul piano intimo sia su quello sociale.
Lo conferma il fatto che non c’è una tipologia testuale esclusiva nella produzione di Varesi: alla fortunata serie dei polizieschi si accompagna l’attenta rappresentazione della società contemporanea e i suoi mali, come avviene per esempio con Il paese di Saimir, oppure la nota più intimista de Le imperfezioni, fino appunto ai romanzi di carattere storico La sentenza e Il Rivoluzionario. Il passaggio da un genere all’altro avviene e si ripete con un’alternanza che segue evidentemente l’impulso dell’ispirazione e l’interesse di volta in volta predominante, senza escludere incursioni e, per così dire, contaminazioni fra le varie tipologie narrative. Si pensi, per esempio a La casa del comandante o Il fiume delle nebbie: gialli, sì, ma costruiti su una tematica storica che impregna di sé l’ambientazione, la caratterizzazione dei personaggi, la stessa trama poliziesca. E infine va ricordato anche che l’autore affianca all’attività di scrittore quella di giornalista (è redattore del quotidiano “La Repubblica”), che gli fornisce un repertorio di informazioni ed elementi di riflessione, ma anche, comprensibilmente, costituisce il retroterra ed il presupposto capace di spiegare la sua attenzione così precisa e critica nei confronti del reale contemporaneo.

Dalla cronaca alla narrativa

Parlando dei suoi polizieschi, Varesi ha infatti confermato di trarre spesso dalla cronaca fatti e spunti che, reinventati e liberamente collegati diventano le storie narrate nei suoi libri. Ciò è successo anche con Il fiume delle nebbie, dove ha rielaborato, accostandoli in un’unica storia,  due diversi dati cronachistici: quello di un’imbarcazione abbandonata a se stessa che rischiava di andare a schiantarsi contro la pila di un ponte, e il ritorno dal Sudamerica di un emigrato, che, dopo decenni, è rientrato in Italia per mettere finalmente in atto una vendetta, completando così la faida familiare che aveva condizionato tutta la sua vita. Naturalmente, però,  ciò non basta: l’intreccio, il ritmo narrativo, l’atmosfera e lo spessore psicologico dei personaggi richiedono l’intervento determinante dello scrittore  che sollevi il testo dalla nuda cronaca e ne faccia un romanzo.
index2Nei gialli di Varesi, più d’atmosfera che d’azione, la vicenda si snoda apparentemente lenta, ma in realtà viene intessuta a poco a poco con una varietà di fili che, alla fine, consentono di cogliere l’evidenza di una trama sottile e complessa. Per mezzo di Soneri, commissario inquieto e un po’ anarchico, con molti dubbi (anche esistenziali) e poche certezze, lo scrittore ci porta attraverso lunghe elucubrazioni ed improvvise illuminazioni, fino a comprendere non chi è stato, ma perché l’ha fatto. E quando un’indagine si conclude, la soluzione del caso spesso non  ha il sapore esaltante della vittoria, ma il retrogusto amarognolo del disincanto.
Questo soprattutto perché non si tratta soltanto di rubare idee e spunti alla vita vera per creare letteratura di genere, qualcosa di affascinante, sì,  ma inventato e fittizio. Infatti anche Varesi, come diversi altro giallisti italiani, considera la materia poliziesca strumento d’indagine sul presente, sui temi più attuali e scottanti della società contemporanea.  E per uno come lui, che con il presente è costantemente a contatto grazie al lavoro di giornalista, le occasioni davvero non devono mancare. Senza che si possa però dimenticare il filo rosso che collega il presente al passato, particolarmente quello più prossimo rappresentato dalla guerra e soprattutto dalla lotta partigiana, da cui l’Italia attuale deriva e si riconosce, sebbene ultimamente il suo sguardo sembri farsi sempre più incerto e appannato.images3

Indipendentemente dal genere, i libri di Valerio Varesi sono sempre ambientati nei luoghi più noti e più cari allo scrittore (anche per ragioni biografiche): la Bassa Padana, tra Parma, Reggio e Piacenza. Paesi e frazioni rivierasche fatti di terre piatte e spesso sommerse, dominate dalla presenza assoluta e prepotente del fiume. E poi vapori, nebbie, scenari evanescenti e atmosfere rarefatte. Per apprezzare davvero, fino in fondo, i libri di Varesi credo che forse sia necessario conoscere questi paesaggi così freddi e apparentemente inospitali, i quali, nel loro isolamento, non comunicano un senso di pace, ma piuttosto di solitudine e straniamento. Oppure bisogna amare almeno un po’ la nebbia, saperne cogliere la suggestione, forse non immediata, ma sempre malandrina. E subirne la sottile malia, che, quando ti prende, non ti lascia più. Così è appunto anche per i libri di Varesi, che della nebbia hanno fatto l’elemento distintivo che li caratterizza e ne segna in buona misura la cifra stilistica.

L’esperienza televisiva

Al riguardo lo scrittore ha raccontato qualche aneddoto interessante verificatosi ai tempi della sua collaborazione con la RAI per la realizzazione di una serie di sceneggiati tratti dai suoi gialli e intitolata – ovviamente – Nebbie e delitti.
I responsabili televisivi erano alla ricerca di un poliziesco italiano ambientato al Nord, poiché avevano captato una certa disaffezione del pubblico settentrionale, a fronte della preponderante presenza nei palinsesti di telefilm “meridionalisti” e isolani. La scelta era caduta appunto sulle storie del commissario Soneri, che più nordico di così non si può. Anzi più che nordico: padano.
Ma poi, al momento di scrivere la sceneggiatura televisiva e creare l’ambientazione… troppa nebbia, troppo freddo, troppa acqua….Insomma, questa volta si temeva l’effetto negativo della settentrionalità! Competere col paesaggio bellissimo, ma in fondo cartolinesco e vacanziero, di Montalbano non aveva senso, né stava nelle intenzioni di Varesi, che coerentemente ha sostenuto quanto più possibile il mantenimento delle caratteristiche originali dei suoi libri anche nella trasposizione televisiva. nebbiedelitti1
In realtà egli ha collaborato soltanto alla realizzazione della prima serie, uscita nel 2005 (non a caso quella più riuscita e più apprezzata dal pubblico), mentre le due successive sono state ricavate da soggetti autonomi ed eterogenei, semplicemente sfruttando il personaggio di Soneri. Con risultati che Varesi giudica piuttosto modesti e, soprattutto, estranei all’autenticità della sua opera, specialmente nella terza serie, la più deludente, dove inopinatamente la scena si trasferisce a Torino e persino ad Otranto. Un vero tradimento per il commissario padano, se non fosse che ciò è dipeso da ragioni di budget: esistono infatti comuni che finanziano le produzioni televisive (probabilmente anche quelle cinematografiche) purché vi ambientino sceneggiati e fiction varie. Da un lato, l’effetto pubblicitario e la conseguente ricaduta economica spiegano questo interesse per la produzione; dall’altro, l’esigenza di risparmiare spiega il resto.

Una eccessiva semplificazione

Si intuisce, tuttavia, che l’esperienza in RAI deve essere stata per Varesi complessivamente frustrante anche al di fuori di queste specifiche ed insospettate circostanze. Causa ne sono le diverse modalità espressive, comunicative e per cosi dire “funzionali” dei due diversi mezzi, quello della scrittura e quello della televisione. E, soprattutto, i pesanti condizionamenti subiti/imposti da quest’ultima, che deve rispondere a determinati requisiti di share e di commerciabilità, fortunatamente assenti nel percorso editoriale di un’opera stampata, o almeno diversi e non altrettanto invasivi. Ne è derivata una vistosa e, per un autore, mortificante azione di semplificazione e banalizzazione, per cui le vicende narrate sono state appiattite e ridotte praticamente ad una successione di scene e sequenze anodine molto simili una all’altra, adatte, insomma, ad essere interrotte dagli spazi pubblicitari senza particolari danni per la comprensione. Cosa che non sarebbe potuta invece avvenire se la narrazione si fosse mantenuta complessa ed articolata, com’è appunto nei libri.la-banda-dei-commissari-tv-201375408alta_ahorigb
Anche i dialoghi, cui Varesi confessa di dedicare particolare cura, per dare freschezza e credibilità i suoi personaggi, sono stati svuotati di senso e di stile caratterizzante, in nome della chiarezza e dell’accessibilità per il pubblico. Ma quest’ultimo – osserva lo scrittore – non è poi così ingenuo ed ignorante come sembrano credere i produttori, se è vero che la serie di maggior successo è la prima, quella più curata e fedele (nonostante le semplificazioni di cui sopra) ai romanzi da cui deriva, anzi l’unica effettivamente derivata da essi.
Paradossalmente, l’aspetto che alla fine è risultato più soddisfacente è proprio quello su cui inizialmente l’autore nutriva le maggiori perplessità, vale a dire la scelta di Luca Barbareschi quale interprete del commissario Soneri. Un attore fascinoso, sciupafemmine, vistosamente egocentrico e non esente da atteggiamenti sopra le righe poteva apparire poco adeguato al ruolo di un uomo non particolarmente attraente, solitario, introverso, inquieto. Invece Barbareschi ha voluto e saputo contenere la propria interpretazione entro i limiti imposti dal personaggio letterario, rivelando non solo un innegabile talento artistico e professionale (per il quale Varesi ha parole di assoluto apprezzamento), ma anche un’insospettata affinità caratteriale con Soneri, esplicitata sul registro della normalità.

Angela: un personaggio controverso

A proposito di personaggi ha infine confessato la propria difficoltà nel creare e costruire in modo umanamente accettabile e narrativamente funzionale la figura di Angela, la compagna del protagonista: difficoltà che peraltro lo accomuna a molti altri giallisti perché derivante dalla situazione poliziesca in se stessa. Il personaggio principale, quello che indaga – poliziotto, investigatore, privato che sia – accentra infatti su di  sé tutta l’attenzione, il pathos, la ragione di attesa ed emozione da parte del lettore. Arduo, allora, porgli accanto una compagna (perché quasi sempre di protagonisti maschili si tratta) senza rompere un equilibrio già precario e provocare effetti indesiderati. Ancora più arduo creare una figura femminile di un certo spessore psicologico, che goda d’indipendenza di pensiero e di azione, quindi in grado di vivere, anche letterariamente, una vita autonoma e credibile. Non a caso giallisti anche di fama tendono ad allontanare geograficamente mogli e compagne (la Livia del siciliano Montalbano vive in Liguria, tanto per intenderci), o a ridurle a semplici comparse, e persino a farle morire, risolvendo la questione una volta per tutte.
Lui, Varesi, ha scelto di percorrere l’impervia strada della vicinanza Soneri-Angela, per di più creando un personaggio“forte”, professionalmente autorevole (è avvocato) e caratterialmente capace di imporsi e prendere iniziative libere e personali in tutti i settori, compreso quello sessuale. Bella e sicura di sé, Angela è una presenza di rilievo, che non può essere ignorata. E infatti… Varesi ammette che il pubblico, specialmente femminile, su di lei si è diviso: o la ama o la odia, ma non rimane mai indifferente. E con ciò, volendo, si potrebbe dare comunque conferma alle ragioni di interesse artistico di questo personaggio.

I romanzi storici

Ma con l’autore de La sentenza e de Il Rivoluzionario, la discussione e il dibattito non potevano certo limitarsi alle diverse, e pur interessanti, questioni relative alla scrittura di polizieschi.

SENYTENZAIl primo racconta una storia vera della Resistenza, ispirandosi alle memorie di Ubaldo Bertoli, comandante partigiano della Quarantasettesima Brigata Garibaldi, attiva sull’Appennino emiliano. L’immagine storica che emerge dalla lettura de La sentenza è forte, dura, realistica. Certamente lontanissima dalla presentazione agiografica che ne ha dato una certa cultura di sinistra, almeno negli anni immediatamente successivi alla guerra e alla Liberazione. Ma lontana anche da una volontà denigratoria che sembra essersi affermata in questi ultimi tempi, da cui si potrebbe essere indotti a credere che il movimento partigiano sia stato del tutto privo di idealismo e generosità.
Il secondo  è ambientato nel dopoguerra, dalla Liberazione agli anni di piombo, passando attraverso il piano Marshall, la costruzione di un Paese democratico, la guerra fredda, i governi DC, il compromesso storico, il delitto Moro. Protagonisti sono Oscar Montuschi, ex partigiano e comunista, rivoluzionario mancato, e la moglie Italina, personaggio che Varesi confessa di amare moltissimo, per la carica umana e ideale che la contraddistingue.
Il libro è quindi il racconto delle speranze e delle delusioni dei comunisti italiani, dRIVOLUel loro progressivo cedimento e isolamento, della loro lotta destinata a farsi via via più debole col trascorrere degli anni, fino alla sconfitta finale e all’imbarazzante riflessione sulla genesi del terrorismo. Ma con una nota finale che non vuole essere di totale pessimismo, individuando per Oscar e Italina la possibilità di una ritrovata partecipazione civile nel ritorno alle origini al servizio degli ultimi. Al di fuori del partito, ormai ombra di se stesso, e paradossalmente accanto ai cosiddetti “preti di strada”, in una inaspettata ma sincera sintesi di comunismo e cristianesimo.

Il dibattito e la testimonianza

Dopo la coinvolgente presentazione dei due romanzi fatta dallo stesso autore,  gli interventi e le domande del pubblico si sono succedute incentrandosi soprattutto sulle tematiche del Rivoluzionario, più sentite forse perché riferite al periodo più recente e contiguo a  quello che stiamo attualmente vivendo. Si tratta di un  materiale storico ancora fluido, che affronta questioni ed interrogativi tuttora irrisolti e propone riflessioni su fatti e problemi non decantati dal temppcio e dall’interpretazione critica. Temi vivi nella memoria di molti e forse presenti nell’esperienza personale almeno di una parte dei lettori: capaci quindi di sollevare reazioni, precisazioni, smentite. Benché, a mio parere, non abbia molto senso il confronto sui particolari, quando le premesse generali sono tra loro inconciliabili. In altri termini, come si può mettere a paragone lo scenario descritto e narrato nel Rivoluzionario, ovvero il contesto politicamente privilegiato di Bologna, città comunista per eccellenza, con il resto d’Italia?  E   particolarmente col Veneto cattolico e democristiano, dove la situazione politica e sociale è sempre stata profondamente, direi costituzionalmente diversa?
Tra gli interventi del pubblico, mi piace però ricordare almeno quello di un anziano signore di nome Adamo, che ha voluto portare la propria testimonianza di vita vissuta, rievocando, tra  la commossa attenzione dei presenti,  gli anni difficili della dittatura, e poi della guerra e della ricostruzione. Anni nei quali si sono consumate, tra mille stenti e difficoltà, la sua infanzia e la sua giovinezza. Nonostante il trascorrere dei decenni e il fluire di un’esistenza che – mi auguro – sarà stata comunque ricca anche di esperienze ed eventi sereni e gratificanti,  questi ricordi rimangono indelebili nella sua memoria,così vivi da poter suscitare ancora dolore ed emozione.

Dal passato prossimo al presente. La drammaticità della situazione italiana, oggi – osserva Varesi – è la perdita di speranza. Non solo da parte dei più giovani,  che di giorno in giorno si vedono sbarrare le strade del futuro, ma anche da parte dei più anziani (anche senza risalire agli anni della guerra e della Resistenza), che hanno conosciuto momenti storici un po’ migliori. Momenti in cui sembrava di poter  individuare un orizzonte verso cui avanzare tutti insieme, in un Paese moderno e democratico, momenti in cui poteva avere qualche senso elaborare dei progetti di vita. Oggi non è più così, per nessuno. E non si tratta tanto della quasi ovvia demistificazione di un’utopia, quanto, molto più dolorosamente, del crollo di qualsiasi prospettiva concreta per un’esistenza dignitosa e civile. L’assenza di programmazione politica ha affossato il Paese, ha stravolto dati che si credevano certezze, annullando qualsiasi progettualità. La gestione dello Stato ormai degradata, fatta da politicanti spesso corrotti, sempre asserviti ad esigenze economiche personalistiche e talvolta poco oneste, ha uniformato il panorama negando ogni possibile punto di riferimento. È preclusa, così, persino l’ipotesi della lotta.

 

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