MORTE DI UN UOMO FELICE. IL DRAMMA DI UN GIUDICE, DI GIORGIO FONTANA

Sec10612583_383281451823667_685942583676469260_nonda parte dell’intervista a Giorgio Fontana.

Qui parla di Morte di un uomo felice, romanzo intenso e bellissimo, che unisce alla capacità di coinvolgere il lettore e di tenerlo col fiato sospeso per l’esito della vicenda, svariate ragioni di interesse per le importanti tematiche ideali trattate. L’autore le affronta con serietà e impegno, ma senza mai calcare la mano, offrendoci invece un libro di grande leggibilità, da assaporare pagina per pagina.

Leggendo il libro ho avuto l’impressione che la felicità di Colnaghi sia più presunta che reale, più un obiettivo che una condizione effettiva. Lui è in realtà inquieto, malinconico, combattuto. Ma allora che cosa intendevi col concetto di “uomo felice” del titolo?

Sì, è un tema che ho affrontato a più riprese. Mi rendo conto che la felicità di Giacomo possa apparire piuttosto inconsistente, ma dipende anche molto da che idea ne abbiamo. Certo, se pensiamo ad essa come a uno stato di sazietà o gioia continua, allora Giacomo è tutt’altro che felice. Ma non era quello che avevo in mente; io non credo ci sia contraddizione fra la felicità e la malinconia, l’inquietudine e persino con le lacerazioni interne. Inoltre il titolo contiene un tocco ambiguo: forse l’uomo felice è Ernesto, non Giacomo… O forse sono entrambi. Lascio volentieri al lettore la scelta.
imageseeMorte di un uomo felice procede su due linee parallele: la storia di Giacomo, e quella di suo padre. Il primo è un giudice, mentre Ernesto è stato partigiano quasi per caso, senza cultura né grandi teorie ideologiche, ma animato da un fortissimo e istintivo senso della giustizia. È in questo senso che si deve intendere nel libro come passaggio del testimone da una generazione all’altra?
C’è sicuramente questo elemento, ma non è così semplice e senza contraddizioni. Giacomo non conosce Ernesto ed è cresciuto in una famiglia che l’ha sempre considerato uno sciocco, non un eroe (vedi le idee del nonno…). Il passaggio di consegne è pieno di dubbi, mancanze, nostalgie, e si muove in un contesto storico complesso.
E anche Ernesto, il padre,  muore convinto che esista una felicità possibile, anche se non goduta…
Dici? A me sembra che Ernesto, per quanto muoia tragicamente, la sua vita l’abbia vissuta appieno. E felicemente.
Le figure femminili – Lucia e Mirella -mi sembrano relativamente poco significative. Azzardo un’ipotesi: non c’era molto posto per loro, dato che il libro tratta già molti temi e problematiche di grandissimo spessore e poteva sorgere il rischio di appesantirlo o di disperdere la materia narrativa…
Sì, questa è una cosa che mi rimprovero: avrei dovuto tratteggiare un po’ meglio le figure femminili. Ma del resto è verissimo quanto dici: ero così concentrato sui due protagonisti principali che il rischio di perdere la presa su di loro era molto alto. Purtroppo anche narrativamente uno deve fare delle scelte; e oltre a questo, ci sono i miei limiti oggettivi come scrittore (ri-purtroppo!).19
Gli anni di piombo per Giacomo, la guerra e il nazifascismo per Ernesto. Entrambi lottano e muoiono per questo, ma la loro morte avviene in circostanze dai contorni sfumati, sembrano casuali, quasi paradossali. Quel è il significato, il messaggio, di questo modo di rappresentare la loro fine?
Nessun messaggio: l’idea stessa di “messaggio” in letteratura mi inquieta molto, come credo si sarà evinto dalle mie risposte precedenti. E in tutta onestà non vedo “assurdità” o “casualità” nelle morti di Ernesto e Giacomo: sono entrambi morti terribili, ma provocate da cause evidenti e di cui si parla in tutto il libro (i rastrellamenti e le uccisioni dei repubblichini, l’omicidio politico). Ripeto, sono fini dolorosissime, ma non capisco perché chiamarle “paradossali”.
Non intendevo dire che siano morti immotivate o prive di cause ideali, ma che l’atto specifico dell’uccisione è raccontato come se fosse un fatto che li coglie di sorpresa (specialmente Giacomo), o di cui sono poco consapevoli nel momento preciso in cui accade. Questo mi ha colpito, mi ha comunicato un senso di maggiore tragicità.
Beh, ogni lettore in un libro può percepire soggettivamente qualcosa di diverso e personale .
Ma cambiamo argomento. Nel libro ha moltissima importanza il tema dell’amicizia, nel rapporto di Giacomo Colnaghi con Mario da un lato, e con Roberto Doni dall’altro. È perché tu stesso vi dai molta importanza nella vita, oppure è solo un’invenzione letteraria?
Credo che qui sia scivolato il mio attaccamento fortissimo al tema. Sì, credo che l’amicizia sia davvero una cosa fondamentale della vita — della mia vita di sicuro. Forse anche per questo mi è venuto facile raccontarla.
Vittorio-occorsio_fullD’altra parte, Mario e Roberto narrativamente sembrano avere la funzione di catalizzatore per consentire al protagonista la presa di coscienza su alcuni aspetti esistenziali, morali e professionali di primaria importanza. Insomma per aiutarlo a conoscere meglio se stesso. È così?
In realtà no, ma per un motivo molto semplice: non riesco a pensare a un mio personaggio come a un ente che assolve una funzione narrativa. Lo troverei ingiusto e terribile nei suoi confronti, lo ridurrei a un mezzo per risolvere l’equazione del romanzo. Ma i romanzi non sono equazioni, e i personaggi — come le persone — non sono mezzi.
Nel dibattito che ne scaturisce, tu da quale parte stai? Chi pensi abbia ragione sulle varie questioni?
Intendi nel dibattito fra Doni e Colnaghi?
Sì.
Domanda difficile: credo sinceramente di stare un po’ a metà fra i due. Da un lato apprezzo molto l’idealismo di Colnaghi e la sua concezione della giustizia come non limitata alla semplice legge; dall’altro condivido anche la laicità di Doni e il suo approccio più prudente su determinate questioni.
Colnaghi rifiuta l’iscrizione al partito proposta da Mario ed è un uomo “senza tessere”; eppure non si può dire che non sia impegnato politicamente. Vedi la militanza personale in un’attività di interesse pubblico e la costante ricerca della formula più corretta e utile per assolvere al proprio compito. Ho l’impressione che tu abbia voluto polemicamente contrapporre il concetto di “tessera” a quello di onestà e impegno. È corretta questa interpretazione?index
Credo di non averlo pensato consciamente. Però sì, diciamo che al di là del romanzo è un tema che mi è caro: dopotutto i miei intellettuali preferiti sono sempre stati dei dissidenti o dei cani sciolti. Chiaromonte, Caffi, Berneri, lo stesso Camus… Tutte persone agli antipodi dell’intellettuale con la tessera in mano, di regime o di partito. Voci critiche, tormentate, davvero indipendenti.
Tu stesso dichiari, nella nota in fondo al libro, che Morte di un uomo felice e Per legge superiore costituiscono idealmente un dittico sul tema della giustizia. Vuoi spiegarci il legame tra i due libri?
295745_2469171644156_1942627966_nSì, Morte di un uomo felice è nato letteralmente dalle ceneri di Per legge superiore: una volta terminato questo romanzo, non riuscivo proprio a togliermi dalla testa Giacomo Colnaghi. Mi sembrava un personaggio davvero interessante. Mi piaceva: un tipo che avrebbe meritato molte più righe delle poche che gli avevo dedicato in Per legge superiore. E così ho fatto. Il risultato è una specie di dittico in cui si confrontano due persone molto diverse, due epoche molto diverse e due concezioni della giustizia molto diverse.
Colnaghi si muove nell’ambito della fede e il suo concetto di giustizia non può prescindere dal riferimento a valori cristiani (più che cattolici). Ma al di fuori di questa collocazione, un laico o un ateo, come dovrebbe impostare e tentare di risolvere la questione, secondo te?
Ignorandola. Io sono ateo, e per quanto mi interessi moltissimo la questione dal punto di vista narrativo (come si evince dal romanzo), credo che la giustizia umana abbia già abbastanza problemi con gli uomini per pensare anche a quelli degli dei. Ciò detto, è vero che l’interpretazione etica della giustizia data da alcune religioni è ricchissima di spunti. Ma è indispensabile sempre avere uno sguardo laico al riguardo, quando si tratta di metterla in pratica. (In altri termini: se il cristianesimo mi suggerisce di includere la compassione nel mio concetto di giustizia, benissimo — ma non perché c’è un dio che ci osserva dall’alto).
Da cosa nasce il tuo evidente interesse per il tema della giustizia – e del rapporto con l’etica?
Credo innanzitutto dai miei studi: sono laureato in Filosofia, e inevitabilmente certe domande ti restano attaccate anche quando scrivi narrativa. Anzi, devo stare attento a non farmi troppo prendere dal mio lato “filosofico” — c’è sempre il rischio di appesantire la narrazione con la rifless14205686-symbol-of-law-and-justice-law-and-justice-concept-focus-on-the-scalesione.
Anche senza scomodare Flaubert, dimmi: c’è qualcosa di autobiografico in tutto quello che hai scritto nei tuoi due romanzi (bellissimi)?
Ben poco. Forse una certa malinconia di fondo, l’amore per l’amicizia (come si diceva sopra), e senz’altro certi luoghi che frequento a Milano, ma i personaggi sono così lontani da me che di “autobiografico” davvero non c’è molto.

 

 

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