LA “CACCIA SELVAGGIA”: QUALCHE NOTIZIA IN PIÙ

ÅsgårdsreienLa  “caccia selvaggia” 

La “caccia infernale” non è pura invenzione letteraria, bensì un tema mitologico e folkloristico presente in tutta l’Europa, compresa l’Italia (prevalentemente in Friuli e in varie zone dell’arco alpino), ovviamente con diverse elaborazioni locali. È però originario dell’area settentrionale germanica, nella cui mitologia si tramanda la storia del dio Wotan, ovvero Odino,  che nelle notti immediatamente successive al solstizio d’inverno, a cavallo di una creatura mostruosa dotata di otto zampe, guida in una ridda intorno alla Terra uno spaventoso gruppo formato dalle anime dei soldati morti in battaglia.
Gli elementi comuni alle varie rappresentazioni locali del mito riguardano proprio il corteo notturno e l’infernale battuta di caccia. Le possibili varianti si riferiscono invece ai componenti del corteo e alla loro identità: solo animali, esseri mostruosi, oppure, come accade nel libro di Fred Vargas,  anime di dannati, comunque guidati da un‘entità che spesso viene a coincidere con lo stesso Satana.
I mortali che si trovano sul cammino del corteo, specie se macchiati da colpe anche segrete e ignorate dai più, sono perduti: saranno infatti  “ghermiti” e trascinati nel Regno dei Morti, tra lampi di luci lontane, scalpitio di cavalli, latrati e urla spaventose. La “caccia selvaggia”, infatti, in qualche modo vuole ristabilire una forma di giustizia assegnando ai colpevoli una punizione sovrumana e sovrannaturale. Forse per questo le sue apparizioni sono eventi eccezionali e non a tutti è dato assistervi impunemente: bisogna invece essere anime pure ed innocenti (come in effetti è la giovane Lina de La cavalcata dei Morti); ma esserne testimoni significa comunque farsi portatori di un presagio di morte e sciagura.

 

La credenza all’origine del mito scaturisce, evidentemente,  dalla paura del buio diffusa nelle società premoderne e tecnologicamente non evolute; al buio, specie se associato alla solitudine e alla lontananza dalla comunità (come conferma l’altro dato costante nella leggenda, ovvero la foresta, un vero e proprio archetipo simbolico) si associa quindi la condizione di pericolo e insicurezza per la perdita della percezione e la  mancata protezione del gruppo di appartenenza.
Nel buio  l’uomo non è in grado neppure di svolgere le sue consuete attività né di vivere normalmente. Per questo l’oscurità è interpretabile anche in senso allegorico con connotati ambivalenti: proprio perché trascende la dimensione umana della normalità e della quotidianità, essa è il tempo e la condizione di ciò che trascende l’uomo e la natura, cioè il sovrumano. In altre parole, è il divino che, preannunciato dal sibilo sinistro del vento infernale, si manifesta negli improvvisi bagliori di luce che squarciano le tenebre.

Per finire, una curiosità letteraria.
Forse non tutti sanno che anche nella Divina Commedia e precisamente nel tredicesimo canto dell’Inferno (ovvero nel secondo girone del settimo cerchio, dove son puniti i violenti contro se stessi) compare una caccia selvaggia.
Ne sono vittime le anime degli scialacquatori, ossia coloro che in vita hanno sperperato e dilapidato il loro patrimonio spinti da un oscuro istinto distruttivo. La loro colpa non deve infatti essere confusa con la più comune prodigalità, che consiste nello spendere senza ritegno per desiderio di piacere o di possesso; scialacquare significa invece commettere un peccato di violenza contro se stessi, nella concretezza della proprietà, analogamente ai suicidi, che hanno commesso la medesima violenza, ma concretizzandola contro la propria persona. Non a caso nell’Inferno dantesco gli scialacquatori fanno la loro comparsa nell’orrida foresta dove gli alberi, secchi, contorti e neri, altro non sono che le anime di chi ha volontariamente rinunciato alla vita umana, ed ora, per la legge del contrappasso, è condannato a perdere appunto la propria fisionomia di uomo. Per la stessa legge, coloro che hanno distrutto e dilapidato i propri beni devono ora essere distrutti e dilaniati da cagne fameliche.472px-Stradano_Inferno_Canto_13
La scena che si presenta all’improvviso agli occhi del pellegrino Dante è appunto quella della fuga disperata di due personaggi, nel vano tentativo di salvarsi dallo scempio. Sono il senese Lano da Siena, morto in battaglia alle Giostre del Toppo, e il fiorentino Jacopo da Sant’Andrea, oggetto di numerosi aneddoti proprio su questo tema.
La loro corsa è naturalmente inutile perché la punizione è voluta da Dio: le cagne, infatti, li raggiungono e li azzannano senza pietà, e ciò è possibile, perché nell’invenzione dantesca, le anime,  per volontà divina, hanno fisicità e sensibilità pressoché identiche a quelle corporee, condizione necessaria per l’esecuzione delle punizioni infernali. Peraltro, dopo il completamento dell’evento, le membra lacerate e disperse si ricompongono miracolosamente e tutto ricomincia, ripetendosi per l’eternità.

 Alcuni decenni più tardi, intorno alla metà del Trecento, Giovanni Boccaccio, grande ammiratore di Dante, si ispirerà a questo episodio elaborando in modo personale il tema della caccia infernale nella novella di Nastagio degli Onesti (Decameron, Quinta giornata, novella ottava).
Se la fonte è indubbiamente la Commedia dantesca, molti sono però i cambiamenti apportati dal narratore di Certaldo, grazie ai quali si perdono completamente sia gli aspetti più cupi della vicenda sia la valenza religiosa, collegando il racconto alla tematica amorosa e riportandolo in una dimensione totalmente laica. L’ambientazione si sposta nella pineta di Classe, vicino a Ravenna, in un paesaggio reale, privo dei connotati spaventosi della foresta infernale, ed anzi quasi caratterizzato dalle prerogative del locus amoenus.
Il protagonista Nastagio, appartenente ad una ricca famiglia ravennate, vi si è ritirato per tentare di dimenticare la ragazza di cui è innamorato, che non ne vuole sapere di lui. Ma soprattutto sta cercando di evitare il disastro patrimoniale, che incombe proprio per il suo forsennato e sfortunato corteggiamento. Un giorno, inoltratosi pensieroso nella pineta, è sorpreso dall’arrivo improvviso di una giovane nuda, che fugge inseguita da cani feroci e da un cavaliere nerovestito che brandisce uno stocco per colpirla.
A nulla valgono le richieste di pietà della donna e i tentativi di difesa da parte di Nastagio: ciò che deve accadere accade, perché anche in questo caso si tratta di una volontà superiore che dispone la vendetta e la punizione. Il cavaliere nero e la fanciulla sono infatti le anime di due concittadini, protagonisti in vita di una vicenda in parte simile a quella vissuta dallo stesso Nastagio: lui, Guido degli Anastagi amante infelice, dopo aver dilapidato il patrimonio aveva finito per suicidarsi; lei, insensibile a qualsiasi profferta d’amore, aveva addirittura gioito di quella morte.800px-Nastagio_Degli_Onesti_II
Ora sono entrambi all’inferno, l’uno per il suicidio, l’altra per aver rifiutato l’amore, che secondo Boccaccio è una forza naturale cui si deve – sempre ed assolutamente – obbedire.  Dannati ma non pentiti, loro punizione consiste proprio nel ripetere per l’eternità la caccia a cui ha appena assistito Nastagio. Per lui, però, la loro apparizione non sarà presagio di morte, ma strumento di salvezza, perché egli saprà sfruttare a proprio vantaggio la ripetitività dell’episodio, riuscendo così a convincere la riottosa fanciulla di cui è innamorato ad assecondare i suoi desideri, accettando  infine matrimonio. D’altronde, la memoria di quanto è successo a Guido ed alla sua amata ben presto acquisterà la valenza di exemplum in grado di convincere tutte le donne di Ravenna ad adottare un comportamento sin troppo disponibile verso l’amore…

 Più di un secolo dopo, nel 1483,  la storia di Nastagio degli Onesti ha ispirato la creatività di   Sandro Botticcelli, che l’ha illustrata in quattro pannelli, corrispondenti alle principali sequenze narrative. Il lavoro è stato eseguito  su commissione di Lorenzo il Magnifico per farne dono nuziale a Giannozzo Pucci e Lucrezia Bini; le quattro tavolette sono oggi disperse tra Madrid (Museo del Prado) e Firenze.

 

Se qualcuno volesse saperne di più sulla caccia selvaggia, non avrebbe che l’imbarazzo della scelta: numerosi sono infatti gli studi sulla caccia selvaggia. Uno degli storici ed antropologi più autorevoli sull’argomento è Carlo Ginzburg, del quale segnalo, fra gli altri, i seguenti testi:
I benendanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, 1966, n.ed. 1972, 2002.
Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, vol. 1: I caratteri originali, Einaudi, 1972
Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, 1989, n.ed. 2008.

Le immagini:

Il dipinto“Åsgårdsreien del pittore norvegese Peter Nicolai Arbo raffigurante la caccia selvaggia, (1872), Oslo, Galleria Nazionale.
Dante raccoglie i ramoscelli nel bosco dei suicidi, illustrazione di Giovanni Stradano (1587).
L’ “uccisione” delle donna, una delle tavolette dipinte da Botticelli, ora al Prado di Madrid.

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