LA NOVELLA DI FRATE PUCCIO (DECAMERON, III,4)

Dioneo è il più scanzonato, sboccato, irriverente dei dieci giovani che compongono la lieta brigata dei narratori del Decameron, quello in cui più compiutamente l’autore si identifica e a cui affida, come ad un portavoce,  considerazioni e valutazioni che possiamo senz’altro ritenere sue. Alla fine della novella di Alibech (letta da Margherita Stevanato a conclusione della serata in Biblioteca di venerdì 29 novembre) ecco come il malizioso giovanotto si rivolge alle donne, pubblico privilegiato e diletto: E per ciò voi, giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il diavolo in inferno, phher ciò che egli è forte a grado a Dio e piacer delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire.
LimagesSSa battuta, al di là della sorridente allusività, altro non è che un consapevole, convinto, serissimo invito a godere liberamente l’amore in tutte le sue declinazioni, nella gioiosa accettazione anche della sua fisicità, che, in quanto dettata dall’istinto naturale, non può che essere un fatto buono e sano, a prescindere dalle ipocrite recriminazioni dei benpensanti e delle mortificanti inibizioni dei bacchettoni. È l’amore infatti la forza che muove tutte le azioni umane, e Boccaccio perciò lo apprezza e lo rappresenta in tutti i suoi aspetti, dal più elevato a quello più materiale, essendo appunto  l’amore, inteso anche come sesso, una pulsione che non può in alcun modo essere contrastata o repressa.

È sulla base di queste considerazioni che vorrei qui presentare la  novella di Frate Puccio, la quarta della terza giornata, nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.
Come nella storia di Peronella, anche qui c’è una beffa ordita da una moglie ai danni di un marito per poter dare seguito ai suoi amori, e per questo la novella potrebbe trovarsi quindi nella settima o nell’ottava giornata. La collocazione in quella dove invece si celebra l’industria, (ovvero una sorta di intelligenza applicata) è motivata dal fatto che qui la beffa non è estemporanea, ma si pone come percorso minuziosamente architettato perché i due protagonisti possano raggiungere il proprio scopo e soddisfare il loro desiderio. Modalità e caratteristiche della beffa stessa, infatti, indicano, articolato in un sottile gioco di astuzia, l’esercizio di quella che per Boccaccio è la virtù che domina tutte le altre, l’intelligenza che dà la capacità di progettare e portare a compimento le proprie iniziative, sapendo eventualmente rintuzzare i colpi avversi della Fortuna e cogliere al volo le occasioni favorevoli.

Ma per Boccaccio virtù è anche la sensibilità di cogliere le contraddizioni della vita e di saperle comporre in armonia. Ecco perché – come accade nella novella che vogliamo qui presentare –  a diventare motivo di beffa e di inganni anche spietati sono spesso tendenze e comportamenti come la grettezza e l’avarizia in tutte le sue forme, compresa quella sentimentale: tutti atteggiamenti per lo scrittore ingiustificati ed inaccettabili, in quanto contrari al suo concetto laico e borghese di ben vivere. Attraverso la beffa, che si traduce praticamente in una punizione per il colpevole, egli tende infatti a ristabilire un ordine ideale, in cui in qualche modo opera una sintesi tra due culture e due livelli sociali diversi, quello aristocratico e quello borghese, esprimendo la convinzione che la nuova mentalità mercantile, di cui condivide idee e condizioni,  possa e debba conciliarsi con la cortesia, facendo propri i valori cavallereschi.

Ma veniamo alla novella.  La scena è a Firenze, i personaggi sono solo tre. Lui è un marito tonto e bigotto: Secondo che io udii già dire, vicino di san Brancazio stette un buon uomo, il quale fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo spirito, si fece bizzocco di quegli di san Francesco, e fu chiamato frate Puccio: e seguendo questa sua vita spirituale, perciò che altra famiglia non avea che una sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva i suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori. AP1986_05_CON_DET_WEB

Lei, una donna nel fiore degli anni, giustamente desiderosa di sane soddisfazioni sessuali, ma immalinconita dalla latitanza del marito: La moglie, che monna Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana, per la santità del marito, e forse per la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più lunghe diete che voluto non avrebbe; e quand’ella si sarebbe  voluta dormire, i forse scherzar con lui, ed egli le raccontava la vita di Cristo, e le prediche di frate Nastagio o il lamento della Maddalena o così fatte cose.

occam_001L’altro, eccolo qui: Tornò in questi tempi da Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di San Brancazio, il quale assai giovane e bello della persona era e d’aguto ingegno e di profonda scienza; col qual frate Puccio prese una stretta dimestichezza. E per ciò che costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a cìò, avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se lo cominciò frate Puccio a menare talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di fra Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli faceva onore.

Si noti per la caratterizzazione dei personaggi, l’uso degli aggettivi o di altre espressioni qualificative. Puccio: buon uomo e ricco, tutto dato allo spirito, idiota… e di grossa pasta; sappiamo inoltre che è vecchio; Monna Isabetta: giovane di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta; don Felice: assai giovane e bello della persona…e d’aguto ingegno e di profonda scienza.
Lo stile è colorito, efficace, pregnante; ma pur nell’uso di un registro linguistico basso e popolareggiante,  la descrizione di Isabetta e del monaco procede addirittura mediante l’accostamento di frasi costituite da endecasillabi!

 E’ abbastanza facile intuire che con queste premesse i tre  finiranno per chiudere il più classico dei triangoli: le condizioni ci sono tutte. E se di adulterio si deve necessariamente parlare, è chiaro però che nell’ottica di Boccaccio, determinato a  riconoscere non solo la nobiltà del sentimento amoroso, ma anche la piena legittimità della soddisfazione sessuale, la tresca è del tutto giustificata.
Frate Puccio invece è un concentrato di caratteristiche negative, perché non soltanto è sciocco e ottuso, come emerge sia dalla rapida descrizione della sua personalità, che ci riporta ad una condizione abituale, sia dall’azione stessa raccontata nella novella. Totalmente, assurdamente divorato dalla sua superstiziosa devozione, è anche dedito a pratiche violente di mortificazione: gli scopatori, infatti, costituivano una compagnia di terziari “disciplinati” che praticava durissime penitenze, e, come abbiamo visto, tutto si può dire di lui meno che gli piaccia scopare nel senso attuale del termine.imagesfff
Nella sua abnorme religiosità egli dunque perde il senso della misura e dell’equilibrio, che costituiscono la base di ogni personalità di valore. Infatti, come accade per tanti altri atteggiamenti, quali la gelosia, l’avarizia, la tendenza all’ira, nel giudizio dello scrittore le scelte di vita di frate Puccio,  in apparenza  pertinenti solo alla sfera del privato, sono invece  presentate  come paradigmi di un più ampio sentimento  di “villania” e giudicate perciò negativamente anche in senso etico e civile.  Lo sciocco bigotto diventa così non semplicemente un campione di dabbenaggine – che comunque per Boccaccio è un limite grave – ma qualcosa di ben peggiore: è un esempio di anti-cortesia, perché non sa godere la vita, non possiede il dono della piacevolezza. E soprattutto ignora le esigenze della natura pretendendo di imporre anche alla moglie un’esistenza stravolta, data la sua incapacità di rapportarsi positivamente, appunto con “naturalezza”, ai sani desideri sessuali di lei.

In contrapposizione sta don Felice, giovane, bello, gagliardo, ben disposto ad arrivare là dove il marito non arriva: Continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie così fresca e ritondetta, s’avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior difetto; e pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra Puccio, di volerla supplire. E postole l’occhio addosso e una volta e altra bene astutamente, tanto fece che egli l’accese nella mente quello medesimo disidero che aveva egli: di che accortosi il monaco, come prima destro gli venne, con lei ragionò il suo piacere.

Don Felice si sente dunque portato ad un atto di generosità tutta particolare, e, data la situazione, a Boccaccio non sembra dispiacere; che poi si tratti di un monaco evidentemente non è rilevante, benché in molte altre novelle nel Decameron la corruzione della gente di chiesa sia pesantemente ripresa, in qualsiasi forma si manifesti. Soprattutto lussuria e avarizia, i due vizi più diffusi nel clero medievale (e non solo), diventano infatti oggetto di un sarcasmo privo di qualsiasi indulgenza e trovano spesso la giusta punizione nelle diverse vicende. Ma qui no: meglio un monaco innamorato e appagato, che un marito inadempiente.
Al desiderio di don Felice corrisponde senz’altro la buona disposizione di monna Isabetta, ma la realizzazione del loro comune volere si scontra con le difficoltà pratiche, ovvero la necessità di incontrarsi in modo sicuro, senza farsi scoprire da frate Puccio, che non si allontana mai da Firenze e anche per seguire i propri affari non si discosta molto da casa. E’ a questo punto, allora che scatta la beffa, in cui sia Felice sia la donna danno prova di sagacia ed astuzia  per raggiungere i propri scopi.  Ideatore ed esecutore ai danni del marito bigotto è goj.ht2il monaco, ma Isabetta, che prontamente capisce le sue intenzioni e sta abilmente al gioco, rivela almeno altrettanta industria. Si tratta quindi di personaggi positivi, virtuosi, secondo la concezione boccacciana, tanto più che il tradimento è perpetrato ai danni di un personaggio assolutamente lontano dagli ideali di vita cortesi. E la beffa risulta anche più maliziosa perché lo sciocco è ingannato e colpito là dove è più debole, sfruttando il richiamo dell’unica cosa che gli sta a cuore, cioè acquistare la santità. Egli viene quindi “punito” in nome della vita e del buon senso terreno, trasformando la sua insana fissazione nello strumento della punizione stessa.
Don Felice dunque ricorre alle proprie capacità persuasive e, forte della fiducia che frate Puccio nutre nei confronti della sua dottrina (un laureato alla famosa facoltà di Teologia di Parigi, nientemeno!) gli fa credere di conoscere il metodo più rapido per andare in Paradiso, non mancando di far notare che si tratterebbe in realtà di un grande segreto, che i papi e i più alti prelati rifiutano di divulgare per timore che i fedeli tralascino di elargire loro quelle elemosine con cui sperano di acquistare merito ed indulgenze. Ma lui è eccezionalmente disposto ad insegnarglielo in nome dell’affettuosa amicizia che li unisce…
Secondo le indicazioni di Felice, Puccio allora dovrà confessarsi, digiunare e fare penitenza astenendosi da qualsiasi contatto sessuale per ben quaranta giorni, e poi….
E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo donde tu possi la notte vedere il cielo; e in su l’ora della compieta andare in questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa che, stando tu in piè, vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star senza muoverti punto insino a matutino. E se tu fossi litterato, ti converrebbe la questo mezzo dire certe orazioni che io ti darci: ma perché non se’, ti converrà dire trecento paternostri con trecento avemarie a reverenzia della Trinità; e riguardando il cielo, sempre aver nella memoria, Iddio essere stato creatore del cielo e della terra, e la passion di Cristo, stando in quella maniera che stette egli in su la croce.

E’ evidente che questa penimagesWWitenza è appositamente studiata per inchiodare frate Puccio sul tetto per tutta la notte, mentre in casa don Felice e Isabetta si danno buon tempo. Infatti: Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto non poteva essere, le più delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre recando e ben da mangiare e ben da bere; poi con lei si giaceva infino all’ora del matutino, al quale levandosi se n’andava, e frate Puccio tornava al letto.

La beffa, davvero impietosa, continua a fare effetto anche quando a rigore non ce ne sarebbe più bisogno, infierendo sul povero frate Puccio sempre là, nel suo desiderio di santità. Ecco infatti come Felice prevede il completamento della pratica devota, infierendo con un accanimento che a questo punto non si sa più se definire ironico o sadico:
Poi, come matutino suona, te ne puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra ‘l letto tuo, e dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire almeno tre messe e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far n’hai alcuno, e poi desinare ed essere appresso al vespro  nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io ti’ darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi in su la compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo, come io feci già, spero che anzi che la fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa cosa della beatiudine etterna, se con divozione fatta l’avrai.

Per di più, il tutto si svolge  in condizioni tali per cui il marito, bloccato sul tetto, percepisce ciò che per tutta la notte che avviene di sotto, nella sua camera. Se poi, nella sua santa ingenuità, egli non immagina neanche lontanamente a cosa effettivamente siano dovuti tutti i rumori che continua a sentire, il lettore invece lo sa bene, e da ciò scaturisce la nota esilarante della seconda parte della novella, efficacemente impostata come una scena teatrale, sia per il forte impatto visivo sia per il  grande rilievo assunto dal malizioso dialogo a doppio senso tra Puccio e Isabetta:
Era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale giaceva la dorma, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro; per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla donna alla scapestrata ed ella con lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa; di che, avendo già detti cento de’ suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò la donna senza muoversi,e domandolla ciò che ella faceva. La donna, che motteggevole era molto, forse cavalcando senza sella la bestia di san Benedetto o vero di san Giovanni Gualberto, rispose: « Gnaffe, maritrovieri3to mio, io mi dimeno quanto io posso ».
Disse allora frate Puccio: « Come ti dimeni? Che vuol dir questo dimenare? ».
La donna ridendo, ché di buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose: « Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l’ho udito dire mille volte: “ Chi la sera non cena, tutta notte si dimena”».
Credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse; per che egli di buona fede disse: « Donna, io t’ho ben detto non digiunare; ma, perché pur l’hai voluto fare, non pensare a ciò; pensa di riposarti; tu dài tali volte per lo letto, che tu fai dimenare ciò che ci è ».
Disse allora la donna: « Non ve ne caglia, no; io so ben ciò ch’i’ mi fo: fate pur ben voi, ché io farò bene io, se io potrò».

1 Unknown Artist from Giovanni Boccaccio, Des cléres et nobles femmes Artiste préparant une fresqueVa detto tuttavia che, pur nell’audacia della situazione è comunque assente qualsiasi compiacimento osceno: l’atteggiamento del Boccaccio è piuttosto di divertito distacco. Anche perché sotto il sorriso si cela il disprezzo per la gretta ottusità di frate Puccio, mentre nei confronti degli innamorati, specialmente della donna, è evidente una benevola comprensione, nell’affermazione, assolutamente priva ipocrisia e di remore moralistiche, che l’amore appartiene alla vita e alla natura,  e va pertanto accettato e goduto. Confermano questo giudizio non solo la beffa in se stessa e  il tono del racconto, ma anche la conclusione della vicenda, che esclude l’estemporaneità dell’episodio e indica invece esplicitamente l’assestarsi di  una nuova situazione, più soddisfacente per tutti, forse persino  per il marito, becco e contento:
Continuando adunque in così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più volte motteggiando disse con lui: « Tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiamo guadagnato il paradiso». E parendo molto bene stare alla donna, sì s’avvezzò a’ cibi del monaco che, essendo dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di Frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione lungamente ne prese il suo piacere. Di che, acciò che l’ultime parole non siano discordanti alle prime, avvenne che, dove frate Puccio faccendo penitenzia si credette mettere in paradiso, egli vi mise il monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie che con lui in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran divizia le fece.

 

 

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